Non so come dirlo

Elena Marinelli
9 min readDec 30, 2020

«Astieniti» potrebbe essere un utile suggerimento, lo so.

A gennaio 2020 mi sono capitate cose importantissime nel giro di nemmeno due settimane, che coprono un arco narrativo di almeno quattro stagioni di un qualunque prodotto seriale moderno. Sulla scrittura ci sono ancora dubbi — «è un buon prodotto? È inclusivo? È adeguato?» — ma sulla trama niente da dire: siamo nell’ambito del romanzo pageturner, una tipologia di romanzo che ho imparato a nominare negli ultimi anni. Tipicamente il pageturner è facile che sia un thriller, se non altro perché la svolta di trama può essere messa in atto con destrezza.

(Ma il sogno di leggere un romanzo intimista pageturning non me lo toglie nessuno.)

Torniamo al pageturner. È un’esperienza che non avevo mai fatto, ma non so se augurarvela, sinceramente. Siete persone che amano la tranquillità? Che si stressano per qualunque cambiamento? Che fanno la lista dei pro e dei contro se devono cambiare supermercato? Allora forse non fa per voi. Siete persone mediamente contente? Prendete la vita come una scatola di cioccolatini? Allora forse l’esperienza non è nemmeno così traumatica.

Io appartengo al terzo gruppo: quelle che odiano gennaio.
Gennaio è il più crudele dei mesi. Obbliga a fare i conti, anche una semplice moltiplicazione, anche se non la si vuole fare, anche se non la si condivide con nessuno. Gennaio è il mese dalle sembianze di orco bitorzoluto, con gli occhi di ghiaccio senza pupille che comunque trova il modo di guardare negli occhi noialtri, quelli che «i buoni propositi» sono l’incubo peggiore possibile.
Il 2 gennaio è il giorno esemplare di gennaio (l’Epifania nasce con malinconia, l’Epifania è quella che tutte le feste si porta via, non l’ho detto io), è quasi sempre finito l’alcool ed è il vero primo giorno di gennaio, il primo non conta. Fin dal momento in cui si aprono gli occhi il 2 gennaio è completamente in salita e tempo il caffè, tempo il gesto di sedermi alla scrivania mi ricordo di aver comunque comprato l’agenda, di aver compilato un Word con una serie di cose che dovrei imparare, o scrivere, o entrambe le cose: mi ricordo che solo dodici ore prima ho ceduto, ho creduto, ho preso per assunto il modo di pensare di Harry e Sally la notte di Capodanno. È durato pochi minuti, ma c’è stato ed eccoli lì i postumi della sbronza: un accenno di buoni propositi, nemmeno compilati per bene, nemmeno colorati: solo l’ennesima lista che vorrò dimenticare perché ho metodo per tutto, tranne che per i buoni propositi.

Le vertigini della lista sono pericolose, perché avvallano l’idea che possa funzionare la magia: con un po’ di organizzazione, con un po’ di devozione a me stessa, con un po’ di costanza possono funzionare.

Gennaio è il più crudele dei mesi.

Nel 2020, un po’ dopo il 2 gennaio, era arrivata la casa perfetta, quella che credevamo fosse perfetta, quella che non è stata, quella che ci avrebbe dato un bel po’ di rogne, con il senno di poi, ma che sembrava la casa perfetta. La prima, peraltro, in barba a tutte le statistiche e le cose che ci aveva detto chi ci era già passato — «mettetevi l’anima in pace, perché occorrono anni» oppure «la prima è sempre una delusione enorme, ma serve, perché così non pensi di esser stato fortunato», «noi ci abbiamo messo due anni, e ci siamo dovuti accontentare».
Stavamo cercando casa da poco, per tante ragioni era arrivato il momento, avevamo scelto Milano, con la stessa consapevolezza con cui si sceglie qualcosa che in fondo in fondo si può cambiare. Milano è casa nostra, non c’è molto da dire su questo, con il meglio e il peggio, è soprattutto casa di Paolo, ma ci è diventata, per tutti. E quando abbiamo deciso se sarebbe diventata per davvero una casa tutta nostra, abbiamo riguardato tutto quello che ci legava a questa città e ci siamo accorti che era già diventata parte delle nostre vite a pieno titolo: ce ne preoccupiamo, la chiediamo migliore, la cerchiamo migliore, stiamo attenti a come governa la politica, cerchiamo di essere presenti in piazza, quando c’è bisogno, io adoro il panettone tanto quanto gli struffoli, non c’è molto altro da dire. E poi ci sono delle sere di inverno freddo a Milano in cui la notte è talmente tersa da sembrare finita: non ha più strati, segreti, cose nascoste. Sembra molto vicina al concetto di intimo. E allora tanto valeva trovare una casa. In un posto che ci piacesse, che avesse poche e finite cose su cui puntare. L’avevamo trovata, ma non è andata, per motivi che hanno a che vedere più con chi la vendeva che con noi. Ci rimasi male. Ha a che vedere con l’entusiasmo, credo. Con l’entusiasmo che uso per i nuovi progetti.

Nel 2020, un po’ dopo il 2 gennaio, ho parlato con F. che era venuto a Milano, a presentare il suo libro, quando ancora si facevano le presentazioni in presenza (è stata la mia penultima, ora che ci penso e mi mancano molto) e con F. ci parliamo di molte cose quando ci vediamo: abbiamo il problema di doverci recuperare, perché lui non vive a Milano e ci vediamo una volta all’anno, quando va bene. Non ci conosciamo da una vita, siamo diventati amici da adulti, e lo siamo da abbastanza tempo per sapere molto l’uno dell’altra e allora ci teniamo a sapere come va, come va con i sogni e soprattutto come va con le mancanze, e finisce sempre che tiriamo tardi. Quella sera è successo lo stesso: c’era la casa da dirgli, c’era un’idea da narrargli, e lui ne aveva una migliore per me, per confronto. È stata una cosa bella uscire con un’idea migliore, tornare a casa e non andare a dormire, ma aprire un documento e metter giù un po’ di idee, per vedere se l’indomani avrebbero retto, se avrei dovuto inviare la mail. L’indomani saremmo andati a presentare un’offerta per la casa che doveva essere e non è stata.

Nel 2020, un po’ dopo il 2 gennaio, recupero la notizia del Capodanno a Wuhan, in cui era stato notificato «un focolaio di casi di polmonite ad eziologia non nota» e quella notizia si prende spazio, di giorno in giorno, diventa un argomento di rientro dalle ferie alla macchinetta del caffè. «Che hai fatto a Capodanno?», «Hai sentito di Wuhan?». Ci ridimensionavamo all’inizio, me lo ricordo: ci dicevamo delle cose a riguardo come ci dicevamo tutto il resto. Era un pezzo di mondo lontano che attraversava un problema e come tale andava trattato. In ufficio ogni tanto guardavamo le mappe del contagio, le prime, quelle in tempo reale con i puntini rossi su sfondo nero, con il planisfero pieno solo sulla parte a est: una mappa di un attacco alieno di qualunque film, anche il peggiore, in cui c’era una invasione da temere. Ma la paura era finta, era ancora una catarsi e gennaio se ne è andato così: guardando i puntini rossi avanzare, noi vittime incoscienti.

Non sono germofobica, non sono ipocondriaca, ma dal 7 al 27 gennaio ho attraversato diversi moti interni: dal pensiero lontano di stare male alla preoccupazione ansiogena che è poi sconfinata nel contesto nazionale e mondiale in cui ogni giorno, come una messa laica, alle ore 18 facevo i conti: guariti, dimessi, morti, insieme a tutta Italia ognuno dal divano di casa sua. Non ho mai cantato sul balcone. Non mi riesce granché bene.

E dei morti ci si occupava il giusto: prima bisognava capire se stavamo andando un po’ meglio del giorno prima. Prima bisognava giustificare l’ottimismo di ogni giorno nuovo che arrivava ognuno alla sua scrivania in telelavoro, bisognava non perdere il senno, bisognava giustificare la fatica ai figli di 4 anni, che non lo concepiscono proprio il distanziamento, che non sanno come cambia la vita né come si muore. E tu però glielo devi spiegare. Altrimenti gli viene paura. Devi normalizzare. Altrimenti scatta l’angoscia. E allora a furia di normalizzare, tieni il quotidiano attaccato con la spina, perché volevamo esser il più certi possibile che a maggio ci sarebbe stato qualcosa ancora. Abbiamo iniziato a saltare in casa, davanti al televisore, invece che in palestra, abbiamo rimpianto il sudore, abbiamo cucinato in casa invece di andare al ristorante, facevamo gli aperitivi davanti al pc, abbiamo chiesto il rimborso a Ryanair per salvare i soldi per il prossimo viaggio, per sentirci meno soli. Abbiamo insegnato ai nonni cos’è una videocall, perché nemmeno l’Overseas in California è stato così traumatico. Mio figlio ha fatto tutte le lezioni di rugby nel nostro soggiorno che era anche sala da pranzo che era anche il mio ufficio, in centro a Milano.

In quel momento non ci sembrava così assurdo, vero?

Forse lo era. C’erano i morti e c’eravamo noi. E ci siamo dimenticati i morti, dopo averli visti passare in tv, ma c’è chi i morti li ha dovuti piangere lo stesso, da lontano, e le sirene furiose non erano rumori confinati ma ce li avevano nelle orecchie.

In quel momento sembravano sempre gli altri, vero? Sembrava sempre la mappa in tempo reale di gennaio, vero?

Il resto è storia, come si dice. Abbiamo conosciuto qualcuno che ha visto la fila delle bare, abbiamo conosciuto qualcuno che ha visto scomparire una persona cara dietro un vetro o peggio, dal divano di casa sua, mentre facevamo la conta dei morti, che erano in diminuzione.

In quel momento sembrava una consolazione, vero? Possiamo ammetterlo, adesso. Abbiamo fatto le condoglianze, abbiamo detto: «Mi dispiace.» C’è stato sempre un momento in cui una persona e la sua famiglia hanno fatto i conti. È stato un gennaio permanente, un gennaio eterno a inseguire i numeri e le diminuzioni. Non cercavamo la fine, solo la migliore approssimazione possibile.

Mi pareva una salvezza che qualcuno usciva di casa e ritrovava casa sua. Acciaccato certo. Ma tornava a casa. Mi pareva una salvezza che un amico avesse smesso di sentire gli odori ma non era ancora marzo. E lo era, certamente, ma il numero dei morti ce lo siamo dimenticati un pezzo alla volta. Perché erano in diminuzione.

Ieri sera ho iniziato un saggio piccolo e breve di Judith Butler, pubblicato da Nottetempo nel 2013, a cura di Nicola Perugini, uno di quei recuperoni che di tanto in tanto faccio, e che si intitola A chi spetta una buona vita?. Certe volte i libri arrivano quando è il momento di dare una definizione al tormento e, nonostante io avessi in testa di leggere questo saggio di 80 pagine da anni, l’ho fatto solo l’altro ieri, quindi ho aspettato un giorno arancione e l’ho comprato sotto la neve. Sapevo cosa ci avrei trovato dentro: Judith Butler affronta un interrogativo morale che suona come «è possibile vivere una vita buona in una vita cattiva?» e lo fa dopo aver vinto il Premio Adorno nel 2012. Quindi sì, c’entra ovviamente Theodor W. Adorno. Judith Butler parte da un assunto: «Con il termine biopolitica intendo riferirmi a quei poteri che organizzano la vita, inclusi quelli che dispongono in maniera differenziale le vite alla precarietà, nell’ambito dell’amministrazione delle popolazioni, attraverso strumenti governativi e non governativi, stabilendo un insieme di misure per la valutazione differenziale della vita stessa. Chiedendomi come condurre la mia vita sto già avendo a che fare con queste forme di potere.»

Ma il motivo per cui c’entra con questo discorso è che a un certo punto Butler scrive:

«Uno dei miei suggerimenti, al fine di comprendere la modalità differenziale con cui questo status è assegnato, ci si debba chiedere: quali vite sono degne di lutto e quali non lo sono? […] La domanda fondamentale è la seguente: quali vite sono già considerate non-vite, o solo parzialmente viventi, o già morte e perdute, ancora prima di qualsiasi esplicita distruzione o abbandono?»

Il saggio di Judith Butler è politico, per questo ha senso rispetto a quello che è accaduto quest’anno a ripercorrere queste parole. Butler afferma che per valere qualcosa una vita, deve valerne il lutto. E se il lutto non vale, significa che non esiste una struttura per supportarlo.

Mi pareva una salvezza che qualcuno tornasse a casa dopo aver rischiato grosso. Tornare a casa, al chiuso, era una approssimazione verso la mancanza di lutto. Ma non è così. È una pura consolazione, è un paliativo. È accontentarsi.

Appuntare le diminuzioni di morti è stata una necessità, ma era mia, personale, era per combattere la mia personale, che si è impiantata a gennaio 2020 ed è rimasta latente per tutto l’anno. Gennaio 2020 è iniziato con il sentore di morte ed è finito con la morte accertata. E allora la morte degli altri mi pareva lontana. Facile, no?

Mi sono aggrappata a ogni cosa: diminuzioni, consolazioni, privazioni, a saltellare davanti al televisore, a un libro da scrivere, al privilegio di avere un libro da scrivere, in un anno in cui avere un progetto è stato raro. Mi sono aggrappata a gennaio, a un gennaio maledetto che mi ha tolto una persona e mi ha dato un libro da scrivere, che ha tolto la gioia dal viso degli altri e mi ha restituito quella di mio figlio che si è ubriacato dei suoi genitori.

È passato quasi un anno, costruiremo un altro anniversario. Ognuno penserà a ciò che gli pare. Io penserò per sempre che gennaio è il più crudele dei mesi.

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Elena Marinelli

Milano. 📚 ”Steffi Graf” (66thand2nd)“Il terzo incomodo” (Baldini + Castoldi). elenamarinelli.it